- Tre passi con Francesco e Chiara
- Fratelli in Francesco
- Pastorale Giovanile-Vocazionale
Giovani - Francesco d'Assisi e i suoi compagni |
1. Francesco scopre l'uomo fratello
2. Francesco scopre il Cristo fratello
3. Francesco scopre il Vangelo come progetto di «vita»
Chiara d’Assisi ripercorre lo stesso itinerario di Francesco
1. Francesco scopre l'uomo fratello
All'inizio del suo Testamento il Santo descrive con queste parole la sua conversione e la scoperta della sua personale vocazione:
«Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare così a far penitenza; poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi. E il Signore stesso mi condusse tra loro, e io usai con essi misericordia. Ma allontanandomi da essi [dai peccati], ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. Indi attesi un poco e uscii dal mondo» (Testamento, 1: FF 110).
È l'esperienza personale della traiettoria della grazia nel momento forte della vittoria di essa.
Tale esperienza solitamente illumina e governa tutta la vita del convertito. In san Paolo, quel Io sono Gesù che tu perseguiti (At 9,5) divenne uno squarcio di luce che avrebbe vivificato tutta la sua visione teologica del mistero del Cristo Signore, presente nei fedeli, sue membra, e gli avrebbe stimolato lo zelo per il vangelo senza un attimo di tregua. Per Francesco, il fatto di essere giunto all'incontro con il Cristo attraverso il povero, specie attraverso il lebbroso, in cui la povertà si unisce al dolore e all'umiliazione, si proietterà nella sua concezione totale dell'incarnazione e della sequela del Cristo fratello.
Per temperamento e sensibilità cristiana, il giovane Francesco era già incline alla pietà verso i poveri. Un giorno, mentre era tutto affaccendato presso il banco di vendita nel fondaco del padre, gli capitò di respingere malamente un povero che gli chiedeva l'elemosina. Accortosene, rimproverò se stesso di tanta villania compiuta non tanto verso il mendicante, quanto verso il Signore, nel cui nome gli era stato chiesto soccorso. Da quel giorno stabilì in cuor suo di non negare mai cosa alcuna a chi la chiedesse in nome di Dio.
Dio, punto di riferimento dell'amor cortese e puro del figlio del mercante, assumerà, a poco a poco, le fattezze di un volto familiare, quello del Cristo.
Francesco, assetato di gloria, s'incammina verso le Puglie, tra i cavalieri di Gualtiero di Brienne. Vede uno di questi, poveramente equipaggiato, e gli regala «per amore di Cristo» i suoi abiti nuovi fiammanti. La notte seguente sogna un palazzo pieno di finimenti militari. Un altro sogno, più tardi, completa la visione: la voce del Signore lo dissuade dal continuare il viaggio.
Ritornato in Assisi, cominciò a provare un profondo disgusto per i vaneggiamenti giovanili, mentre sentiva crescere nel cuore l'interesse per i poveri, un piacere nuovo di condividere con loro il pane. Non si accontentava più di soccorrerli: «provava piacere a vederli e a sentirli».
Il gesto borghese di andare incontro alle necessità del fratello, gettando un pugno di monete, gli sembrava assurdo. L'amore del prossimo, secondo il Vangelo, rifiuta le discriminazioni che esistono nella società umana, tra il ricco e il povero, tra il nobile e il plebeo. Francesco anelava a sperimentare personalmente cosa volesse dire essere poveri, essere coperti di stracci e obbligati a stendere la mano per implorare la carità pubblica.
L'occasione desiderata gli venne durante un pellegrinaggio a Roma. Presso la porta della basilica di San Pietro cambiò i suoi vestiti con i cenci di un accattone, uno dei molti che si appostavano lì dintorno. In mezzo a loro domandava l'elemosina in lingua francese. Il francese, o più esattamente il provenzale, il linguaggio dei «trovatori», era quello che Francesco usava nei momenti di esaltazione spirituale quando affiorava la sua anima giullaresca.
Francesco aveva ormai l'esperienza della povertà reale, quella del povero, che è, nello stesso tempo, umiliazione, inferiorità, mancanza di promozione, emarginazione e, a volte, degenerazione fisica e morale.
Ma l'esperienza decisiva che lo rovesciò del tutto, passi l'espressione, sotto l'incalzare della grazia, fu quella dei lebbrosi. La natura di Francesco, tutta delicatezza e raffinatezza, si rivoltava di fronte allo spettacolo delle carni putrefatte di un lebbroso. Era il momento di dare a Cristo la prova decisiva della disponibilità per «conoscere la sua volontà».
Dapprima fu la vittoria con il lebbroso che, nella piana di Assisi, gli aveva attraversato la strada: smontò da cavallo, pose l'elemosina in mano all'infelice e lo baciò. Il lebbroso, a sua volta, strinse alle labbra la mano benefica. Pochi giorni dopo Francesco volle ripetere questa esperienza: si recò al lazzaretto e rifece quell'atto eroico con ciascun lebbroso.
Il racconto dei Tre Compagni, che sembra aver raccolto meglio degli altri i ricordi personali di Francesco, […] aggiunge un'osservazione preziosa riguardo al processo di conversione: «Queste visite ai lebbrosi accrescevano la sua bontà».
2. Francesco scopre il Cristo fratello
Il Cristo gli si era alla fine rivelato nel povero più povero della società medievale. Da quel momento egli andrà a incontrarlo gioiosamente nei «fratelli cristiani». Quanto amava designare con questo nome popolare i lebbrosi, queste raffigurazioni vive del Signore sofferente! Ciò che ai suoi occhi li faceva apparire più degni di compassione era l'allontanamento dal consorzio umano al quale venivano condannati. Ora comprendiamo, nel suo contesto storico, l'affermazione iniziale del Testamento. Fu il Signore che «lo condusse fra i lebbrosi» per convertirlo.
In realtà Cristo si stava rivelando a lui nel povero e nel sofferente. Così si preparò a scoprire il Cristo povero e crocifisso quel giorno in cui pregava davanti all'immagine dipinta nella chiesa di San Damiano, la cui visione viene riferita in seguito in tutte le fonti biografiche. «Ormai era del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo».
Segue la rottura con il padre Pietro Bernardone e lo spettacolare spogliamento alla presenza del vescovo, allorché il convertito, nudo e liberato da ogni legame e da ogni convenzionalismo, si lancia al rischio della nuova vita, affidato unicamente al Padre del cielo. Tommaso da Celano lo descrive ebbro di gioia per la nuova libertà che ormai gustava il suo spirito e in atto di cantare lungo i boschi la sua felicità in lingua provenzale. Si accosta a un'abbazia in cerca di lavoro, ma non vi trova che fame e nudità. A Gubbio, un amico gli provvede l'indispensabile per coprirsi. Infine «si recò tra i lebbrosi e stette con loro, servendoli in tutti i bisogni per amor di Dio, lavando i loro corpi in disfacimento e tergendo la materia delle piaghe».
Questo fu il suo noviziato. E sarà anche il noviziato dei suoi primi seguaci. Persuaso che il Cristo finisce sempre per rivelarsi a coloro che lo cercano nei poveri, egli offrirà loro, come in regalo, questa esperienza così splendida per lui, sorgente di dolcissime scoperte. La fede di Francesco continuò, per tutta la vita, ravvivata continuamente dalla scoperta di questo «sacramento» della presenza del Cristo nel povero:
«Qualunque bisogno, qualunque privazione vedesse in qualcuno, con rapida e memore riflessione li riferiva a Cristo. Così in tutti i poveri vedeva il Figliuolo della Madonna poverella [...] Quando vedi un povero - diceva ai frati - ricordati che ti è messo dinanzi lo specchio del Signore e della Madre sua poverella. E così negli infermi considera quali infermità Egli si è addossato per amor nostro!» (TOMMASO DA CELANO, Vita seconda, 83 e 85: FF 670 e 672)
Del resto, la traiettoria seguita dalla grazia nella conversione di Francesco non è un'eccezione, ma è nello stile usuale dell'economia della salvezza (cf. Is 58,1-12). Andare incontro al fratello, specie al fratello più miserabile, vuol dire camminare verso Dio. Cristo ci attende sempre in ogni persona che abbia bisogno di noi (Mt 25,31.46).
3. Francesco scopre il Vangelo come progetto di «vita»
Il terzo stadio della conversione ebbe una lunga attesa purificante nella solitudine e nella preghiera. Si sentiva solo, respinto dai suoi, guardato da tutti come un povero squilibrato. Annoverato ufficialmente tra i penitenti e vestito come uno di loro, non volle inserirsi in alcuno di quei gruppi che si sottomettevano a un certo genere di vita sotto la direzione di qualche sacerdote o accanto a un monastero, anzi non si sentiva di chiedere consiglio a nessuno, convinto che Dio lo guidava. Sono significative le osservazioni dei Tre Compagni:
«Pregava insistentemente il Signore che guidasse i suoi passi. Infatti a nessuno confidava il suo segreto né si avvaleva dei consigli di alcuno fuorché di Dio solo, il quale aveva incominciato a dirigere i suoi passi e, talvolta, del vescovo di Assisi» (Tre Compagni, 10: FF 1406).
Furono due anni e mezzo circa di un forte travaglio interiore, quale era normale in una sterzata totale della vita:
«Pativa nell'intimo sofferenza indicibile e angoscia, poiché non riusciva a quietarsi fino a tanto che non avesse realizzato quello che gli premeva. I pensieri più contrastanti cozzavano nella sua mente. Gli ardeva nel cuore un fuoco divino, un ardore che non riusciva ad occultare. Era affranto dal pentimento di aver così gravemente peccato. Ormai non lo allettavano i mali passati né presenti; ma non aveva avuto sicurezza di preservarsi dai futuri» (Tre Compagni, 12: FF 1409).
Tipica situazione del convertito che vede chiaro quello che ormai è finito per lui, quello che Dio non accetta nella sua vita, ma ancora non ha scoperto «la via», sentendosi spinto verso lo sconosciuto, abbandonato all'azione divina. Quel suo affidarsi all'unica guida di Dio è affermato esplicitamente da lui nel Testamento, in riferimento ai primi passi della fraternità:
«Dopo che il Signore mi donò dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo» (Testamento, 16s: FF 116).
Ebbe un anticipo di questa scoperta definitiva il giorno in cui si accinse a compiere con prestezza cavalleresca l'ordine, ricevuto dal Crocifisso, di riparare la chiesetta di San Damiano. Andò a casa, prese le migliori stoffe del magazzino di suo padre, caricò il cavallo e, a Foligno, vendette stoffe e cavallo. Tornato ad Assisi, andò a trovare il cappellano di San Damiano per dargli l'incarico di ricostruire la chiesa. Pensava ancora da buon ricco cristiano. Ma il prete non volle accettare quel denaro.
Una tale risposta negativa fu interpretata dal giovane convertito come se il Signore rifiutasse i suoi mezzi umani: accettava soltanto la sua persona, non i suoi beni. Buttò la borsa su una finestra, disprezzando il denaro come polvere. «Avrebbe voluto spenderlo per sfamare i poveri e per restaurare la cappella»; ma adesso doveva arrivare alla conclusione che, per essere vero fratello dei poveri, bisognava farsi povero come loro e che le opere di Dio non si fanno con il denaro, ma con la donazione personale.
Dopo la rinuncia totale nelle mani del padre e la sua prima e dura esperienza di povertà gioiosa, ritornato ad Assisi, si accinse a eseguire il comando del Signore crocifisso, ma con le proprie mani. Dovette imparare a fare il muratore, mendicare il materiale, pietra su pietra, e chiedere la collaborazione di altri poveri, condividendo con questi le elemosine. E così, senza denaro, riuscì a ricostruire non una sola chiesa, ma una seconda, poi una terza, e avrebbe continuato a riedificare chiese, se una nuova manifestazione del disegno di Dio non gli avesse fatto vedere che quel servizio reso al Cristo povero non era altro che un allenamento simbolico alla sua grande missione nella santa madre Chiesa. Il denaro, d'ora in poi, non conterà assolutamente nella sua vita; nella Regola, più tardi, lo escluderà decisamente dai mezzi di presenza e di azione della sua fraternità.
Questa posizione gli fu confermata in forma definitiva il giorno in cui, ascoltando la messa nella chiesetta della Porziuncola, la terza da lui riedificata, si sentì colpito dalla pagina evangelica della missione. Era l’anno 1208 e probabilmente il giorno della festa di san Marco evangelista, 25 aprile, oppure quella di san Luca, 18 ottobre. Il testo evangelico era quello di Lc 10,1-9: Gesù manda i discepoli ad annunziare il Regno, con mansuetudine di agnelli, senza provviste di viaggio, senza borsa, portando il saluto di pace, mangiando quello che sarà loro messo dinanzi, curando i malati... Finita la messa, si fece spiegare dal sacerdote quel vangelo. Fu come lo spuntare di un giorno radioso dopo una lunga notte:
«Di scatto, esultante di divino fervore, - Questo, disse, è ciò che voglio, questo è ciò che chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!» (cf. TOMMASO DA CELANO, Vita prima, 21-23: FF 354-358 261-274).
Senza indugio abbandonò il suo abbigliamento da eremita, che fino a quel momento era stato il segno pubblico della sua «vita di penitenza», indossò una tunica semplice, da lui stesso ideata, stretta ai fianchi da una funicella e, a piedi nudi, si mise a predicare annunciando il regno di Dio e invitando alla conversione. Questo accadeva «nel terzo anno della sua conversione».
Ecco il primo effetto della scoperta della sua vocazione evangelica: Francesco sente come un bisogno vitale di portare agli uomini tutto quello che il Signore gli viene comunicando nel segreto della contemplazione; è un messaggio che lui annuncia «con grande fervore ed esultanza», come chi ha una «buona novella» che interessa tutti.
Adesso, inoltre, ha finalmente una vita da vivere e da condividere con altri. Infatti, pochi giorni dopo cominciano a raggrupparsi attorno a lui i primi discepoli, adottando lo stesso modo «di vestire e di vivere». E si trovò fondatore senza averlo previsto. Non si ritrasse davanti a questo nuovo segno della Volontà divina. Accolse il primo arrivato, Bernardo da Quintavalle, con un abbraccio. Tommaso da Celano scrive:
«La venuta e la conversione di un tale uomo riempirono Francesco di una gioia straordinaria: gli parve che il Signore avesse cura di lui, donandogli il compagno di cui ognuno ha bisogno e un amico fedele» (TOMMASO DA CELANO, Vita prima, 24: FF 361).
Aveva dovuto accettare quella lunga solitudine, lui così portato per natura all'amicizia, così socievole! Ancora, dettando il Testamento alla fine della vita, ricorderà il dono della fraternità: «Il Signore mi donò dei fratelli».
Mai adotterà l'atteggiamento dell'asceta che fa sperimentare ai discepoli la sua superiorità spirituale. Anzi, per lui non saranno «discepoli», ma compagni della stessa avventura evangelica. La prima sua preoccupazione fu verificare se anche loro erano chiamati da Dio ad abbracciare la stessa vita. Si portò alla chiesa di San Nicolò con Bernardo e Pietro Cattani, il secondo arrivato; dopo aver pregato devotamente, Francesco aprì tre volte il libro dei vangeli e le tre volte trovarono testi che parlavano di rinuncia radicale nella sequela di Cristo:
«Ad ogni apertura del libro, Francesco rendeva grazie a Dio, che approvava l'ideale da lui lungamente vagheggiato. Alla terza conferma che gli fu mostrata, disse a Bernardo e Pietro: Fratelli, ecco la vita e la regola nostra, e di tutti quelli che vorranno unirsi a noi. Andate dunque e fate quanto avete udito» (Tre Compagni, 28s: FF 1430-1432).
Chiara d’Assisi percorre lo stesso itinerario penitenziale
In un altro contesto sociale e familiare, Chiara di Favarone percorre un cammino di conversione e di scoperta progressiva della vita alla quale Dio l'ha chiamata, non dissimile sostanzialmente dai passi compiuti da Francesco. Soltanto che lei ebbe una guida nella risposta a Dio: l'esempio e la parola dello stesso Francesco, esperto ormai delle vie evangeliche e del Cristo povero e crocifisso. Lei pure parla di conversione e di vita di penitenza, delle sofferenze e incertezze dei primi passi, del «dono delle sorelle», della forma vitae tracciata dal Santo, e afferma con enfasi l'impegno assunto di seguire il Cristo in povertà e umiltà, secondo la promessa fatta «a Dio e al padre nostro Francesco». Chiara ci ha lasciato, come Francesco, la testimonianza scritta della propria esperienza:
«Dopo che l'altissimo Padre celeste si fu degnato, per sua misericordia e grazia, di illuminare il mio cuore perché incominciassi a fare penitenza dietro l'esempio e l'ammaestramento del beatissimo padre nostro Francesco, poco tempo dopo la sua conversione, io, assieme alle poche sorelle che il Signore mi aveva donate poco tempo dopo la mia conversione, volontariamente gli promisi obbedienza, conforme alla ispirazione che il Signore ci aveva comunicata attraverso la mirabile vita e l'insegnamento di lui» (Chiara d’Assisi, Testamento, 24-26: FF 2831).
Nello stesso Testamento riconosce di essere stata, prima della conversione, tra le vanità del mondo. Non parla, come Francesco, dei peccati. Anima semplice, nemica delle iperboli, non si presenta come una peccatrice. Dal Processo e dalla Leggenda ci è lecito concludere che nemmeno accondiscese a tali vanità mondane. Anzi, educata alla scuola di sua madre, Ortolana, in un clima familiare di fede e di pietà cristiana,
«quando cominciò ad avvertire i primi stimoli del santo amore, ritenne spregevole il perituro e falso fiore della mondanità, istruita dall'unzione dello Spirito Santo ad attribuire scarso valore alle cose che ne hanno poco» (Vita di santa Chiara vergine, 4: FF 3160).
Proprio perché in lei non c'era l'ostacolo dei «peccati» per sentire la compassione per i poveri, già dall'infanzia si preoccupava della loro sorte; dalla mensa ben provvista della casa paterna riponeva dei cibi e poi li mandava segretamente ai poveri.
Forse fu l'unica persona ad Assisi in grado di capire la pazzia del giovane Francesco dopo l'episodio della rinuncia in presenza del vescovo. Aveva tredici anni circa quando ebbe notizia che un gruppo di poveri stava lavorando alla ricostruzione di Santa Maria della Porziuncola; diede a Bona de Guelfuccio, sua confidente, una quantità di denari, con l'incarico di portarli ai lavoratori, «acciò comprassero della carne». Si trattava di Francesco e dei suoi collaboratori? Probabilmente sì! E allora sarebbe stata la prima volta, forse, che Francesco sentì parlare della giovane figlia dei Favarone. La notizia diventò interesse di affinità spirituale nel 1210, quando Rufino, il cugino di Chiara, entrò a far parte della fraternità e Francesco predicò nella cattedrale, presso la quale si trovava la casa dei Favarone. Poco dopo, verso il 1211, Francesco prese l'impegno di «strapparla dal mondo» ed ebbero inizio quegli appuntamenti segreti, nei quali la esortava a «disprezzare il mondo». Sembra che l'iniziativa di tali incontri, con il rischio che comportavano per una giovane di famiglia nobile, se il fatto fosse venuto a conoscenza dei suoi, partisse proprio da Chiara, la quale «udendo parlare di Francesco, tosto desiderò sentirlo e vederlo; né minore era il desiderio di lui di incontrarla e di parlarle». Depone Bona de Guelfuccio nel processo di canonizzazione:
«Essa testimonia più volte che andò con lei a parlare a santo Francesco, e andava segretamente per non essere veduta da li parenti. - Adomandata che le diceva santo Francesco, respose che sempre le predicava che si convertisse a Gesù Cristo; e frate Filippo faceva similmente. E lei li udiva volentieri e consentiva tutti i beni che le erano detti» (Processo, XVII, 3: FF 3125).
Il compagno di Francesco era frate Filippo Longo, uno dei suoi primi seguaci. Infervorata sempre più in questi colloqui, Chiara, «accesa da fiamma celeste, così profondamente ripudiò la vanità della gloria terrena, che nulla più del fasto mondano poté in qualche modo intaccare il suo cuore [...] Sopportava ormai con fastidio l'eleganza degli ornamenti mondani e considerava spazzatura ogni cosa che attira esternamente l'ammirazione, al fine di guadagnare Cristo» (Vita di santa Chiara vergine, 6: FF 3165s).
Francesco aveva trovato nella generosa giovane la condizione fondamentale, che lui insegnava ai fratelli, per accogliere «lo spirito del Signore» e aprirsi alla sua azione: un «cuore mondo e una mente pura».
Sapendo che la famiglia stava ormai preparando le nozze, fu disposto dallo stesso Francesco il piano della fuga notturna. E Chiara accolse senza indugio una simile pazzia, che l'avrebbe obbligata a rompere, pure lei, con tutti i convenzionalismi sociali.
La fuga fu realizzata con successo nella notte tra il 18 e il 19 marzo 1212. Alla Porziuncola, Francesco e i fratelli, «che vegliavano in preghiera, la accolsero con torce accese». Là, davanti all'altare della Madonna, Chiara promise obbedienza a Francesco; e lui, personalmente, le tagliò la chioma in segno di rinuncia al mondo e di consacrazione a Dio.
Seguì la lotta con i familiari. Poi la fuga della sorella minore Agnese due settimane dopo, che fece infuriare ancora di più lo zio Monaldo, responsabile del buon nome del casato. Il resto lo riassume la stessa Chiara con queste parole:
«San Francesco poi, costatando che, nonostante la fragilità e debolezza del nostro corpo, non avevamo indietreggiato davanti a nessuna penuria, povertà, fatica, tribolazione né ignominia o disprezzo del mondo, che anzi [...] tutto ciò stimavamo sommo diletto, molto se ne rallegrò nel Signore. Perciò mosso da un sentimento di paterno affetto verso di noi, obbligò se stesso e la sua Religione ad avere sempre diligente cura e speciale sollecitudine di noi, allo stesso modo che per i suoi frati.
E così, per volontà del Signore e del beatissimo padre nostro Francesco, venimmo ad abitare accanto alla chiesa di San Damiano» (Chiara d’Assisi, Testamento, 24-26: FF 2831).
(da: LAZARO IRIARTE, Vocazione Francescana, EDB, Bologna 2006, pp. 27-39)